Mostra fotografica a cura di Luciana Nora

Comune di Carpi
Assessorato alle Politiche Culturali
Centro Etnografico

Le mondine del cappello
Risaiole d’estate, tracciaie e cappellaie d’inverno

Mostra fotografica
a cura di Luciana Nora

Mondine

Trecciaie

La mostra che si compone di 30 pannelli 70 X 100
può essere richiesta rivolgendosi al Centro Etnografico – tel. 059/649969


Quasi tutte le donne di condizione bracciantile hanno sperimentato e praticato a lungo il lavoro in risaia, perlopiù in Piemonte e in Lombardia, poiché fino alla seconda metà degli anni Venti del Novecento, la coltura del riso sul territorio carpigiano era scarsa e non sarebbe stata sufficiente ad impiegare l’abbondante manodopera che si poneva sul mercato del lavoro. Anche un discreto numero di donne del proletariato urbano hanno stagionalmente fatto le mondariso.
Era meno frequente che a questo lavoro si dedicassero le donne appartenenti a famiglie mezzadrili presso le quali il bisogno di manodopera era pressoché certo e dove, tradizionalmente, era inconcepibile allentare il controllo sulle giovani.
Le braccianti agricole, le donne del proletariato urbano e le contadine mezzadre particolarmente dal tardo autunno e fino ad inizio primavera si dedicavano al lavoro del truciolo che si configurava come una straordinaria e utilissima fonte di integrazione econo0mica per le famiglie.
All’inizio dell’ultimo decennio dell’Ottocento, caldeggiate da Gregorio Agnini, ebbero a crearsi cooperative emiliane per l’invio di mondariso in Lomellina; il loro preciso intento era quello di superare la speculazione di incettatori privati, nonché avere il controllo sulle condizioni lavorative. Edmondo De Amicis, trattando di emigrazione interna considerava anche il lavoro di risaia “[…] quei mondatori di riso della bassa Lombardia che per una lira al giorno sudano ore ed ore, sferzati dal sole, con la febbre nell’ossa, sull’acqua melmosa che li avvelena, per campare di polenta, di pan muffito e di lardo rancido…” Da una lettera che Gregorio Agnini inviava al Mazzini il 15 giugno del 1892 si apprende quale fosse il trattamento a cui erano assoggettate le mondine di quell’epoca: “[…] Alle 3½ del mattino sveglia. Alle 4 e spesso anche prima, i mondarisi entrano nell’acqua, e ne sortono alle 7½ di sera, con due riposi intermedi, l’uno di mezz’ora al mattino, l’altro di due ore a mezzogiorno, computando in questo il tempo necessario al viaggio dalla risaia alla cascina e viceversa. Mercede: 90 centesimi la giorno [che secondo il coefficiente Istat corrispondono a £ 6141, ovvero € 3,17]… Vitto (e qui sono le peggiori note) a carico del proprietario: pane scarso al mattino, minestra al mezzogiorno e alla sera di riso e fagioli, di cui una buona parte è guasta. L’ho verificato io. È roba immangiabile…”(1)
Il settimanale carpigiano Luce salutava la numerosa manodopera che partiva per la campagna della monda: “Salute o compagne buone che partite per la monda del riso! Salute o povere sorelle che noi vediamo, non visti, popolare i marciapiedi delle stazioni coi vostri sacchi bianchi, colle vostre valigette di tela, in attesa di essere imballate, merce senza valore, nei carrozzoni di terza classe che vi portano lontano. Salute o sorelle buone che noi vediamo, dai treni fuggenti, curve sulla risaia a strappar l’erba malefica che intisichisce la pianta del riso e smorza la gioia e il sorriso dalle vostre labbra…”(2)
Nonostante la messa a risaia di ampi appezzamenti nelle ex valli, ancora nel 1925, la cronaca del settimanale locale Il Falco, riportava: “[…] Tra Carpi e Novi si sono recate al lavoro circa 800 donne, attirate dalla bontà del contratto… Per qualche avversario l’esodo di tante donne potrà servire per malignare e poter dire che il numero grande delle partenti è avvenuto in seguito allo stato disagiato che regna in questi Comuni…” L’anno successivo ne partivano duecento in meno in ragione di un’alluvione che aveva coinvolto l’area vercellese. Superata quell’epoca e i conflitti interni ad essa, sono le testimonianze ed orali delle stesse mondine a riferire sulla loro condizione.
“[…] Sono andata via che avevo quindici anni, non ero micca grossa come adesso; a quindici anni ero una ragazòla, magra, avevo due belle gambe, mi diceva la figlia della Zita:- Andòm a la risèra, dopo, a tre or a lasòm lè, andom a balèr; a la risèra a stom bèin. (Andiamo alla risaia, alle tre sospendiamo, andiamo a ballare, stiamo bene) – Sono andata via con delle braghine cortine che si vedevano tutte le natiche dietro, delle magliette senza maniche; io mi credevo di andare, non dico al mare, perché non l’avevo mai visto, l’avevo visto solo in cartolina… La prima mattina che andiamo giù, erano le cinque, andiamo a togliere il riso per fare il trapianto: prima di tutto avevo paura delle bisce che, quando ne sentivo una, andavo in pelle d’oca; secondariamente, andiamo giù tutte senza calze, tutte senza maniche: cosa vuoi che sapessi che là ci volevano le calze!… Senti, in mez a i musèin, i tavan i fa prèst i scapa via, ho tàche a sciaferm al còsi, perché tutt im musghevèn… (Senti, in mezzo ai moscerini, ai tafani, e altri insetti non identificati, ho cominciato a schiaffeggiarmi le cosce, perché tutti mi mordevano) Sono risalita alle dieci, che avevo eruzioni sulle gambe, nelle braccia, sul viso che sembravo uno spaventapasseri: più ti bagni e più ti perseguitano. Allora c’era l’Ivonne, l’Ines di Azio che mi facevano i massaggi alle cosce… tutti gli occhi gonfi! Ma veh, mi sono fatta furba il giorno dopo! Sono andata a comperare delle calze che mi coprivano fino all’inguine, dei guanti che mi coprivano, mica dei guanti da sera… e, insomma, ho cercato di coprirmi più che potevo! Ma ho preso una lavorata: chissà dove mi credevo di andare! Alle tre lasciavamo lì, ma, siccome c’erano dei coltivatori piccoli che avevano un pezzettino di risaia e che non potevano andare a prendere delle mondine per pochi giorni, allora andavamo a fare gli straordinari là: un’ora, due ore, fintanto che non veniva sera, così compravamo la mortadella di terza categoria per fare il panino la mattina… Per non andare attorno alla paga dei quaranta giorni della risaia… [a proposito della qualità del cibo] Mi è capitato di stare poco bene e, quel giorno, sono stata in cascina ad aiutare la cuoca: metto il riso a cuocere e sono venute su tutte le tarme del riso… Ho chiesto se si dovesse buttare via e per risposta ho avuto: - Per Dio, cosa gli do quando vengono a casa! – La cuoca ha preso un colino, ha tolto tutte le beghe e, a mezzogiorno lo ha servito.”
“[…] Hai visto Riso Amaro? Beh, se lo avessi visto, quella è tutta la storia delle mondine. Quando smontavi dal treno che venivano con i “baross”, poi la più bella , te ne conto un’altra: quando arrivavi nelle stazioni, dal gran che eravamo viste bene, se stavamo ferme un’ora, sembrava la funzione, che fossimo tutte delle puttane, perché c’erano gli uomini fitti così…Noi altre cantavamo, ma loro venivano a vedere se potevano fare i loro comodi, tanto per dirti”.
“[…] Molte andavano in risaia perché si prendeva di più rispetto al truciolo…Io sono andata alla risaia quell’anno famoso, prima che scoppiasse la guerra e non c’era niente da fare qui. Abbiamo dovuto andare via. Io sono andata alla risaia, però è stata un’esperienza che se dovessi andarci adesso, non ci vado. La risaia…: siamo partiti da Carpi in treno, e poi siamo arrivati a Vercelli sopra un carro bestiame… dato che il Duce diceva che le mondine dovevano essere trattate bene…! Poi quando siamo arrivate a Vercelli, c’era il contadino della cascina che ci aspettava con un carretto. Mi ricordo che quella notte lì è venuto un temporale tanto grosso, davvero grosso e, da Vercelli stazione ad andare alla cascina, c’erano due ore di strada: siamo arrivati la bagnati come i pulcini. Poi il contadino ci ha detto : - Adesso fatevi il vostro materasso.- E ci ha dato della paglia.. L’ordine era di prepararci per le cinque per scendere in risaia. Io che non avevo mai camminato scalza e che non avevo mai messo i piedi in un campo, a metterli direttamente nell’acqua fredda del mattino…: ho pianto tanto che avrei voluto tornare a casa! Avevo quattordici anni, non mi hanno dato nemmeno la paga da donna, perché ci volevano quindici anni, ma
la mia famiglia aveva bisogno e allora hanno chiuso un occhio e mi hanno mandata via lo stesso. Però mi sono ammalata di Paby/Paby, che viene dal contatto con quella paglia che c’è in mezzo al riso che bisogna togliere e che io non conoscevo e mi ha procurato tutte quelle croste e del prurito… C’erano delle donne che avevano della resistenza, che oltre a fare le otto ore lì andavano anche in altri campi a fare il trapianto del riso; io non ce la facevo perché mi sono ammalata. Quei soldi che ho preso, quando sono venuta a casa, li ho spesi tutti in medicine. Si mangiava riso a pranzo e riso a cena, ci distribuivano una pagnotta sul lavoro, e ci davano dieci minuti per fare merenda: pane e una cipolla che ci portavamo dalla cascina e poi girava un contadino con un bicchiere d’acqua . Insomma, praticamente, dicevano che le mondine erano da rispettare, ma eravamo trattate così. La mondina era trattata malissimo sia nel mangiare, sia nella paga, sia nel vestiario, sia in tutto, nel viaggio, perché eravamo mondine su dei vagoni bestiame…Io ho fatto solo un anno e ho detto che piuttosto che ritornare alla risaia vado all’elemosina…Io vedo certe mie amiche che hanno fatto la risaia per anni e anni: sono arrivate adesso tutte operate di ernia e piene di artrosi…”(3).

“[…] Fin da quando ero bambina facevo la treccia e i cappelli ho cominciato che ero un po’ grandina; d’inverno specialmente e alla festa facevamo sempre della treccia e dei cappelli… Ho cominciato che avevo 7 – 8 anni, oddio a quell’età non ne favevo micca un granché, però la facevo. Anche mia madre la faceva appena aveva tempo… e anche le mie sorelle… Dopo sposata ho sempre fatto la bracciante, fino al ’76. Io ho cominciato a 17 anni ad andare in Piemonte in risaia e ho sempre fatto quella vita lì, ci sono andata 9 anni in Piemonte perché qui non c’era micca lavoro… Mi ricordo che quando andavo in risaia [nelle risaie del carpigiano] che avevo le bimbe piccole che partivo alle quattro di mattina e facevo dei chilometri a piedi senza zoccoli per non consumarli e mangiavo un cipollotto con un po’ di sale come pranzo col pensiero delle bimbe a casa da sole senza nessuno che ci badava. Ah, che vite! C’era di bello che si stava sempre in compagnia e si cantava e c’era la salute, perché altrimenti non ce l’avremmo micca fatta a vivere…”(4)
“[Ho cominciato a fare la treccia che] avevo 7 – 8 anni, che allora c’erano le donne che prendevano i bambini alla treccia, li tenevano in camera, chiusi là… io ho fatto fino a sette trecce di 35 metri… La facevano tutte le mie sorelle e poi mia madre che ne faceva di belle! ,,, Alla sera mia madre ci prendeva e ci diceva: - Venite mo’ qui – Venite mo’ qui bambine… Mia madre raccontava le favole… allora non ci veniva micca sonno… ce ne raccontava perché diceva: - Così lavorate anche di più. – Così facevamo la treccia… [Da sposata] Io facevo la treccia, perché in campagna c’era poco lavoro e non potevo aiutare molto. Sono andata in risaia in Piemonte , ci sono andata sei anni: tre prima di sposarmi e tre dopo sposata…”
“[…]Io ho cominciato a fare la treccia presto: di sette anni: Mia madre mi accompagnava la mattina da una signora e a mezzogiorno venivo a casa. Il pomeriggio ci tornavo. È per questo che a scuola non ci siamo andati tanto: dovevamo lavorare per mangiare… Dopo sposata ho fatto sempre la bracciante. Ho fatto più di trent’anni di risaia, trentacinque anni.. .Ho cominciato ad andare in risaia con le donne fatte che avevo tredici anni… Non sono mai andata in Piemonte però, sempre qui a Budrione; i bimbi piccoli non sapevo dove metterli. D’inverno continuavo a fare la treccia e i cappelli… D’estate si lavorava di sicuro, ma era poco lo stesso il lavoro. Mio marito faceva il bracciante anche lui, veniva in risaia. Il lavoro della risaia era molto duro, si stava otto ore al giorno dentro l’acqua fino alla vita! Per dei mesi si andava in risaia…”
“[…] Sono stata boara per tre o quattro anni, ma anche mentre facevo la boara, andavo anche in risaia e a mietere e dopo ho fatto solo la bracciante per dieci o quindici anni e dopo sono tornata boara e poi ancora bracciante; ho fatto sempre quei due bei lavori lì! Facevo sempre il doppio lavoro: andavo in risaia tutto il giorno e alla sera quando venivo a casa e alla mattina prima di andare via, mungevo le mucche. Alle quattro di mattina andavo a mungere e alle otto andavo in risaia. Dico sempre: - Se devo tornare al mondo a fare la vita che facevo allora, non torno più… D’inverno si stava nella stalla. Facevamo i cappelli e ci davano due lire ogni cappello; questo capitava solo quando non c’era da lavorare in campagna, altrimenti ero troppo stanca per stare alzata a fare i cappelli.”
“Ho sempre fatto la bracciante e poi ho fatto quattordici, quindici anni di Piemonte. E poi, qui a casa, ce n’era ancora della risaia e lavoravo sempre in risaia e poi zappare e tutte quelle cose lì: La pavera, perché siamo andati anche a tagliare la pavera, a cavare le barbabietole… D’inverno poi, quando c’era poco lavoroin campagna, facevo i cappelli… abbiamo sempre lavorato, trecce e cappelli, finché ci vedevo bene…” (5)

Nel 1963, il mensile Tuttocarpi, nell’indagare la realtà sociale di Budrione/Migliarina, incontrava, tra l’altro anche la Vita nella risaia; al giornalista che le intervistava, le mondariso che non vollero farsi fotografare rilasciavano: “È una vita dura, sa. Acqua, sole e mal di schiena. E l’orario è quello che è:dalle otto alle 12 e dalle tredici e trenta alle diciassette e trenta. Quanto ci pagano? L’anno scorso erano duecentocinquanta lire all’ora, quest’anno ce ne hanno promesse trecento. Speriamo.”(6)
La durezza del lavoro in risaia risaltava anche nei tanti canti di lavoro delle mondine, per tutte, vale: “Mamma, papà non piangere se sono consumata/ È stata la risaia che mi ha rovinata/…”
Il conosciutissimo canto partigiano Bella ciao è la rielaborazione del più antico canto delle mondine
Alla mattina appena alzata/
O bella ciao, bella ciao/
Bella ciao ciao ciao/
Alla mattina appena alzata/
In risaia mi tocca andar//

E tra gli insetti e le zanzare
O bella ciao, bella ciao/
Bella ciao ciao ciao/
E tra gli insetti e le zanzare/
Un duro lavoro mi tocca far//

Il capo in piedi/
Col suo bastone/
O bella ciao, bella ciao/
Bella ciao ciao ciao/
Il capo in piedi, col suo bastone/
E noi curve a lavorar//

O mamma mia/
O che tormento/
O bella ciao, bella ciao/
Bella ciao ciao ciao/
O mamma mia/
O che tormento/
Io ti invoco ogni mattin//

Ma verrà un giorno/
Che tutte quante/
O bella ciao, bella ciao/
Bella ciao ciao ciao/
Ma verrà un giorno/
Che tutte quante/
Lavoreremo in libertà// (7)

Minuziosa è la descrizione letteraria del lavoro in risaia fatta da Carlo Emilio Gadda:
“[…] Una linea, da lontano, come di un reparto che avanzi, a schiene curve. Talora i grandi cappelli di paglia, tant’è il riverbero, ti paiono galleggiare nell’acqua. Dietro ci sono le capisquadra, ritte e dietro ancora il padrone, cioè il conduttore del fondo: con gli stivali di gomma, col lungo bastone di comando onde si sostiene lungo gli argini… Sono argini di mota, larghi tre palmi, alti tre, viscidi sotto la scarpa… E l’acquaiolo va intorno, come un ragazzo di Gemito, con un suo barilotto sullo stomaco: porge a bere con un mestolo di ferro stagnato alle donne, spillando ogni volta da quel barile. Bevono l’una dopo l’altra… hanno la sottana rincoccata, sopra i ginocchi, scoprono le carni, ancora calde e desiderabili, talora sono calzate di una calza grigia e bagnata, senza piede, che protegge i polpacci dal filo tagliente del riso: o forse dalle zanzare. Il cappello, come un ombrellone generoso, le ripara dal sole. Il giorno avanti, le piantine di riso, a mazzetti, verdissimi cespi, sono state distribuite per tutto il campo, livellato in modo perfetto, con poche dita d’acqua… Ora le donne afferrano le piantine, una dopo l’altra: procedono lente senza mai levare la schiena: fatta una cava nella melma, col pollice e l’indice vi affondano le radici del cespo… Si appoggiano con il gomito sinistro al ginocchio, lavorano solo con la mano destra. Avanzano lente, perennemente chine. La linea dapprima diritta, si snoda poi, procedendo, con seni, e punte verso l’avanti, in ragione delle diverse velocità di lavoro. Una squadra si affanna ad emulare o a superare la contigua: una squadra si spicca in avanti: e ne va rotta la continuità della linea. Vuole arrivar prima a tutti i costi. Vuol fare lavoro doppio in egual tempo: semina il grosso dietro di sé, la vedi lontana e sola nel campo, come una pattuglia di arditi. Il padrone grida allora che non vuole, che gli importa il lavoro ben fatto. E quella, ebbra del suo canto, non sente. Il canto, un po’ nasale, va e viene, come a folate, sul rettangolo immenso della risaia…” (8)

Note

  1. E. De Amicis Gli Emigranti, in di G. Bertacchi, Voci dal mondo antologia della lingua italiana per le scuole medie inferiori in uso all’inizio del ’900. Volume conservato presso il Centro etnografico del Comune di Carpi.
  2. Da Luce 5 – 6 giugno 1909.
  3. Testimonianze orali tratte dal nastro d’intervista: Storie di vita, inf. Nice Bulgarelli, Albertina Biagini – Mafalda Rratissoli, Ines Rossi e dal nastro n. 2 della ricerca l’Arte del truciolo a Carpi, inf. Anna Gualdi. Nastri e trascrizione dei medesimi, nonché schedatura sono conservati presso il Centro Etnografico del Museo Civico di Carpi
  4. Da A. Prandi; Classi sociali e forme familiari all’inizio del Novecento; un’inchiesta su braccianti e proprietari terrieri, tesi di laurea , Università di Bologna, anno accademico 1977 –1978.
  5. Cfr. nota 5
  6. Da Tuttocarpi, Luglio 1963.
  7. Dal nastro di intervista Canti di risaia, realizzato a Fossoli di Carpi nel 1983, conservato presso il Centro etnografico del Comune di Carpi
  8. C. Emilio Gadda, “Dalle mondine, in risaia” in Saggi Giornali Favole, Milano 1991, pag.169.

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